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Immagine del redattoreCristina Maderni

Come minimo non tocchiamo i salari dei residenti

Corriere del Ticino 09 dicembre 2019


L’Opinione / CRISTINA MADERNI / candidata PLRT al Consiglio di Stato e al Gran Consiglio


A conclusione di un processo lungo e tormentato, il salario minimo potrebbe divenire in questi giorni realtà in Ticino. È giusto che sia così: la volontà popolare espressa il 14 giugno 2015 deve essere attuata, come pure vanno rispettate le indicazioni contenute nella sentenza del Tribunale federale del 2017. Eventuali osservazioni critiche vanno quindi focalizzate non sul risultato in sé, ma sui rischi che i termini della proposta della maggioranza pongono alla performance del mercato del lavoro nel suo complesso, quindi sulla necessità di mitigarli con un attento monitoraggio degli effetti prodotti sull’economia, sul lavoro e sulle prestazioni di sicurezza sociale. Non può di conseguenza sorprendere che il rapporto sottoposto al Gran consiglio dall’inedita maggioranza PS-Lega-PPD-Verdi formatasi in Commissione della gestione abbia generato dubbi e obiezioni sul metodo come sui contenuti, con il conseguente proliferare di emendamenti fra loro assai diversi per natura e obiettivi.

Né poteva essere altrimenti. Il salario minimo non costituisce, infatti, la piattaforma ideale su cui basarsi per affrontare i problemi del mercato del lavoro ticinese, a partire dalla difficoltà a creare nuova occupazione per i residenti e dalla sotto-occupazione. I benefici della sua introduzione vanno per due terzi a favore dei frontalieri. Si creano le premesse per una compressione della curva degli stipendi più elevati – storicamente a beneficio dei lavoratori residenti – e per un’ulteriore sostituzione di manodopera residente da parte di manodopera frontaliera. Si ostacola l’ingresso dei giovani sul mercato del lavoro. Si pone infine pressione sulle piccole attività artigianali e commerciali che in una situazione di rallentamento economico rischiano di essere espulse dal mercato.

Fatte le dovute critiche e formulate le opportune proposte di azioni correttive, è oggi compito di chi sinceramente e al di fuori di ogni slogan desidera “salvare il lavoro in Ticino” cambiare marcia, divenire propositivo. Si tratta di volgere lo sguardo al futuro e impegnarsi per migliorare le condizioni di lavoro e garantire i redditi dei residenti, ad oggi sotto pressione, in particolare per determinate categorie professionali e classi di età, oltre che per genere. È mia ferma opinione che il passo più importante in questo senso non si basi su un aggravio dei controlli, che invece vanno ottimizzati e resi più efficaci (gli abusi vanno sanzionati!), o su una proliferazione dei regolamenti. Impegniamoci invece per abbinare azioni volte a stimolare l’economia, di per sé in rallentamento, ad altre finalizzate ad accrescere la coscienza sociale delle imprese, con una conseguente migliore distribuzione della ricchezza prodotta. Benvenuta sarà quindi una politica industriale volta ad attrarre aziende attaccate al territorio e a supportare iniziative nuove, in particolare quelle che provengono dai giovani, spesso in maggior misura originali. Funzionale si mostra la recente riforma fiscale cantonale, da difendere con determinazione anche in conseguenza degli stimoli che pone all’innovazione. Utile sarà poi riuscire ad aiutare le aziende esistenti sul territorio a migliorare i propri margini, ad esempio limitando i crescenti costi burocratici cui sono soggette, liberando in tal modo risorse da destinare ad un equo adeguamento dei salari, quando dovuto. Senza dimenticare che da tempo i profili dei ticinesi in cerca di lavoro troppo spesso non coincidono con quelli ricercati dalle aziende. Insistiamo dunque sulla formazione dei nostri giovani ai mestieri per cui esiste domanda, promuovendo l’insegnamento della lingua tedesca a scuola e non dimenticando nel contempo di affinare l’azione degli URC, sull’esempio di quando avvenuto a Neuchâtel dove una migliore azione di collocamento, e non l’introduzione del salario minimo, ha consentito di ridurre il tasso di disoccupazione. Rimbocchiamoci dunque le maniche: il lavoro di certo non manca!rire all’estero oppure venga nuovamente ceduta. Tutto ciò per evitare

speculazioni.

Stimolare l'economia e accrescere la coscienza sociale delle imprese

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